Giovedì Aprile 25 , 2024
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L'ingiusta progressività dell'Irpef crea distorsioni sull'equità

L’Irpef è ormai diventata un’imposta speciale su pochi redditi, quelli da lavoro dipendente e le pensioni. Con gravi distorsioni sotto il profilo dell’equità. Se un recupero di evasione ed elusione appare difficile, si può pensare di rivedere profondamente la sua struttura. Flat tax e risorse.

Il dibattito sulle proposte di flat tax ha messo in risalto il rilevante costo per lo Stato di una riforma dell’imposta personale che introduca – come nelle proposte di Lega e Forza Italia – un’aliquota marginale unica, inferiore a quella media del sistema attualmente in vigore (di poco sotto al 20 per cento nell’anno di imposta 2012). Non c’è dubbio che, valutata dal punto di vista dello sforzo finanziario, l’applicabilità di una flat tax risulti difficoltosa. Secondo alcune stime, il fabbisogno necessario sfiorerebbe i 100 miliardi di euro e sarebbe in ogni caso consistente anche nel caso in cui la riduzione delle aliquote marginali possa far recuperare base imponibile oggi evasa.
Ci si deve però chiedere se l’ostacolo alla flat tax sia costituito dalla necessità di così ingenti risorse, o se sia invece motivato da una avversione tout court a una riduzione della progressività dell’Irpef, anche nel caso in cui le risorse necessarie fossero disponibili.

I LIMITI DELL’IRPEF
Nel primo caso riteniamo ci si trovi di fronte a un vincolo, almeno nelle attuali condizioni del bilancio pubblico. Nel secondo caso, invece, è opportuno domandarsi se il grado di progressività dell’attuale Irpef sia ancora giustificato.
La risposta, a nostro avviso, è no. Solo per rimanere in tempi recenti, la riflessione può muovere dal “Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica” della Corte dei conti del 2014, che molto efficacemente ha definito l’Irpef “un’arma spuntata” sia per il conseguimento di un ragionevole obiettivo di equità sia per garantire l’efficienza del prelievo. Le ragioni risiedono principalmente in alcune caratteristiche dell’imposta personale:
l’Irpef è un’imposta con circa 41 milioni di contribuenti, ma circa l’83 per cento sono lavoratori dipendenti e pensionati. Imprenditori, autonomi con partita Iva e contribuenti che dichiarano redditi da partecipazione sono solo l’8,5 per cento del totale dei contribuenti;
a questa distribuzione dei contribuenti, fa riscontro una distribuzione molto simile dei redditi dichiarati: l’83,6 per cento è costituito da redditi da lavoro dipendente e da pensione, mentre tutte le altre categorie si ripartiscono meno del 17 per cento del totale dei redditi;
analoga è anche la distribuzione dell’imposta netta pagata, dato che dipendenti e pensionati contribuiscono per l’81,4 per cento del totale;
i contribuenti che dichiarano più di 100mila euro di imponibile Irpef sono poco più dell’1 per cento del totale (circa 428mila), di cui 190mila sono ancora dipendenti e pensionati;
l’Irpef è un’imposta molto evasa. Secondo stime basate sul confronto fra i dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie del 2004 di Banca d’Italia e i dati delle dichiarazioni fiscali dello stesso anno, il tasso medio di evasione è pari al 13,5 per cento dei redditi dichiarati, con una particolare concentrazione tra i redditi di lavoro autonomo e di impresa (56,3 per cento), cioè tra quei redditi che sono percepiti al lordo (senza sostituto d’imposta come invece nel caso dei redditi da lavoro dipendente e da pensione);
l’Irpef è un’imposta molto erosa. Secondo i dati presentati nella relazione del gruppo di lavoro sull’erosione fiscale costituito nel 2012 presso il ministero dell’Economia e delle Finanze, l’impiego di agevolazioni, esenzioni e regimi differenziati produrrebbero un impatto di circa 105 miliardi di minore imponibile, di cui circa 50 miliardi sono attribuibili alla tassazione sostitutiva dei redditi derivanti dal possesso di attività finanziarie, circa 5 miliardi al regime sostitutivo della cedolare secca, e circa 8,5 miliardi alla deducibilità della rendita catastale dell’abitazione principale (misura peraltro giustificata solo in quanto sia applicata una imposta ordinaria sul patrimonio derivante dal possesso dell’abitazione stessa). Senza contare che tra detassazione dei premi di produttività e regimi agevolati (contribuenti minimi, associazioni, eccetera) si perdono ulteriori 20 miliardi di imponibile.
Sebbene configurazioni dell’imposta personale simili all’Irpef – in termini di numero di scaglioni e livelli delle aliquote marginali – si ritrovino in molti paesi Ocse, queste caratteristiche (in particolare le prime tre e la quinta) non si riscontrano negli altri sistemi (o quantomeno non tutte insieme). In particolare, nei paesi dove vige una configurazione simile a quella italiana (ad esempio, nei paesi scandinavi) i tassi di evasione da parte dei lavoratori autonomi sono significativamente più bassi.

UN’IMPOSTA PER POCHI
Non è quindi azzardato sostenere che la base imponibile Irpef sia stata sistematicamente svuotata rispetto all’iniziale intento di farne un’imposta di tipo onnicomprensivo secondo gli ideali teorici dell’imposizione personale. Si dovrebbe invece prendere definitivamente atto che l’Irpef è oggi un’imposta speciale su pochi redditi (lavoro dipendente e pensioni), in particolare su quelli che per loro natura sono poco mobili (rispetto ad esempio ai redditi da capitale) e percepiti al netto dell’imposta (cioè dopo l’esazione dell’imposta da parte del sostituto). Dunque, l’opposizione a riforme che prevedano una riduzione della progressività dell’Irpef dovrebbe essere motivata da argomenti che chiariscano la necessità di mantenere invece un prelievo personale così progressivo sui redditi da lavoro dipendente.
Riteniamo che, sotto un profilo di equità, queste ragioni non ci siano. È proprio la crescente specialità che sta caratterizzando l’Irpef a consigliarne la revisione in direzione di un’area di proporzionalità molto più ampia di quella attuale, anche senza giungere all’estremo di un’aliquota unica. Quando la specialità del prelievo si associa a gettiti elevati (l’Irpef è la prima fonte di prelievo) e a forme estese di progressività, si generano distorsioni equitative inaccettabili a favore di evasori e percettori di redditi che sfuggono alla tassazione personale. E sotto questo profilo, l’attuale Irpef è un pessimo esempio. L’impiego di addizionali regionali e comunali ha poi ulteriormente accresciuto le aliquote marginali stabilite a livello centrale, in alcuni casi fino a circa 3 punti percentuali, inasprendo le attuali distorsioni.
Quando l’attuazione di un’imposta progressiva si dimostra molto difettosa, sarebbe buona regola attenuare fortemente il regime di progressività, in favore di forme di imposizione più semplici; e recuperare un profilo progressivo attraverso provvedimenti di spesa pubblica che favoriscano direttamente (con la prova dei mezzi) o indirettamente (attraverso un recupero di universalità delle prestazioni dello stato sociale) le classi meno abbienti.

DUE AZIONI (IM)POSSIBILI
Emergono quindi due possibili opzioni di politica tributaria. Da un lato, recuperare la forte evasione del tributo. Tuttavia, il fenomeno dell’evasione caratterizza il nostro paese dai tempi dell’unità senza che sia stato significativamente affrontato e risolto e non è lecito attendersi che l’equità dell’Irpef possa essere recuperata per questa via. Dall’altro lato, ridurre il grado di erosione del tributo. Sotto questo profilo, tuttavia, il vulnus consiste – fin dalla sua introduzione – nell’aver escluso dalla base imponibile Irpef tutti i redditi da capitale. Si può anche ammettere che ci siano buone ragioni economiche perché ciò accada, e che renderebbero molto complesso tassare questi redditi in sede Irpef, nonostante altri paesi lo facciano. Ma se ci sono buone ragioni perché queste opzioni non siano percorribili, ce ne sono di altrettanto buone per rivedere profondamente la struttura progressiva di un’imposta che non è più in grado – semmai lo sia stata – di raggiungere l’ideale equitativo della tassazione onnicomprensiva del reddito personale.

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